IL DIALOGO INTERRELIGIOSO
Il dialogo tra le religioni è un segno dei tempi che la Chiesa cattolica ha accolto come dono del Signore a partire dal rinnovamento avviato con la celebrazione e la recezione del Vaticano II (1962-1965). La vicinanza dei mondi e dei popoli ha reso il dialogo tra la Chiesa cattolica e le altre religioni una vera e propria necessità. Esso, infatti, è atteso per evitare lo scontro di civiltà e per camminare insieme agli uomini e alle donne di buona volontà che credono in Dio. Da questo dialogo può nascere una nuova fraternità universale, riconciliata.
Il dialogo rientra a pieno titolo nella missione di evangelizzazione della Chiesa cattolica e favorisce il rafforzamento della propria identità perché non cede ad alcuna forma di sincretismo e di relativismo, bensì favorisce l’incontro tra fedi diverse per la conversione reciproca verso l’unico Dio che è Padre di tutti. Un vero cristiano non può non dialogare perché è la sua stessa fede – natura – che lo orienta all’incontro con gli uomini e le donne del proprio tempo, come anche al confronto sereno con il mondo, le culture, le fedi e le esperienze spirituali, filosofiche e culturali che ogni cercatore di Dio – o anche di senso – vive giorno per giorno nella sua storia di credente e di persona aperta al mistero e al trascendente.
D’altronde, Gesù stesso è la Parola che si è fatta carne, il Logos eterno che è venuto in mezzo a noi per rivelarci il volto del Padre. Egli resta “per sempre” Parola fatta carne, Figlio di Dio, Dio-Figlio, rivolto verso il Padre e verso di noi. Lo stile dialogico del cristiano esprime la sua stessa spiritualità e ne testimonia la fede radicata nella morte e risurrezione di Gesù Cristo.
1. La dichiarazione conciliare Nostra aetate
La dichiarazione conciliare Nostra aetate (28-10-1965) costituisce una sorta di magna charta per la comprensione del dialogo della Chiesa cattolica con le altre tradizioni religiose. In verità, questo documento nasce proprio come frutto dell’azione dello Spirito Santo: si pensò, all’inizio della sua redazione, di dedicare un paragrafo, all’interno del decreto sull’ecumenismo, alla discussione circa il rapporto tra Chiesa cattolica ed ebraismo, liberando il cattolicesimo dall’accusa di antisemitismo. In seguito a continue verifiche e modifiche, si pensò poi di preparare un testo attento al dialogo tra la Chiesa cattolica e tutte le religioni. Diviso in appena cinque paragrafi, i padri conciliari presentarono un testo che motivasse il dialogo tra la Chiesa cattolica e le altre religioni a partire dall’unico progetto salvifico di Dio e dall’unico fine della storia dell’umanità.
All’origine del dialogo tra le religioni si pone, quindi, sia la volontà di Dio di salvare ogni uomo, sia il fine ultimo della storia. Il dialogo nasce come dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, perché i vari popoli costituiscono una sola comunità: hanno una stessa origine e hanno come fine ultimo Dio (cf. NA 1).
Il paragrafo 2 di Nostra aetate afferma che «La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo» nelle religioni. «Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini». Si riconosce l’azione della grazia di Cristo e dello Spirito Santo in ogni tradizione religiosa, così come in ogni essere umano che agisce secondo coscienza e cerca il bene.
Il n. 3 di Nostra aetate considera i musulmani: la Chiesa cattolica guarda «con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta; onorano la sua madre vergine, Maria, e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio, quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Così pure hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio, soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno».
Il n. 4 di Nostra aetate è dedicato alla religione ebraica e mette in evidenza come la Chiesa e la stessa missione di Gesù e degli apostoli sono radicate nella tradizione ebraica, a partire cioè dall’alleanza mai revocata che Dio stipulò gratuitamente con il popolo eletto, Israele, attraverso il patto con Abramo e Mosè. Così si tiene conto del grande patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei e si vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo. (Lumen Gentium n. 16)
Il n. 5 di Nostra aetate contiene una riflessione sulla fraternità universale: «Non possiamo invocare Dio come Padre di tutti gli uomini, se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati ad immagine di Dio […]. La Chiesa esecra, come contraria alla volontà di Cristo, qualsiasi discriminazione tra gli uomini e persecuzione perpetrata per motivi di razza e di colore, di condizione sociale o di religione». Ufficialmente, i padri conciliari non hanno riconosciuto il valore salvifico delle altre religioni. Il loro interesse fu soprattutto quello di intessere relazioni fraterne con gli esponenti delle altre religioni. Si esortò ciascuno a superare le divisioni e a promuovere relazioni amichevoli. Prevale una prospettiva pastorale rispetto a un intento dottrinale o speculativo.
2. Le forme del dialogo e le finalità
A partire dal rinnovamento conciliare, molti sono stati i documenti del magistero e le ricerche teologiche circa la possibilità di definire l’identità e i contenuti del dialogo tra le religioni. Innanzitutto si può parlare di un dialogo ad intra e di un dialogo ad extra.
Ad intra, la Chiesa cattolica ha cercato di ridefinire la propria identità, natura e missione alla luce delle nuove istanze sociali, storiche, politiche, culturali e mondiali. Da qui l’ecumenismo e la rilettura trinitaria dell’essere Chiesa secondo la costituzione dogmatica Lumen gentium. Per cui, la Chiesa, essendo comunione, trova la radice del dialogo nell’amore trinitario.
Ad extra, la Chiesa cattolica ha provato a dialogare con il mondo e le attese dell’umanità del terzo millennio. Il dialogo interreligioso rientra tra queste sfide della post-modernità. Paolo VI affermò che la Chiesa si fa colloquio, dialogo, per portare Cristo al mondo.
Senza la pretesa di offrire un trattato sul dialogo o sul metodo dialogico, l’enciclica Ecclesiam suam (6-8-1964) volle disporre gli animi a uno “stile dialogico” sulla scia del Vaticano II. Paolo VI affermò che la storia della salvezza è la storia di un dialogo continuo di Dio con l’umanità. Il ruolo-missione della Chiesa cattolica è quello di prolungare tale dialogo. Tracciando tre cerchi concentrici, e partendo da più lontano, il papa distinse, nell’ordine: il dialogo della Chiesa con il mondo intero; con i membri delle altre religioni; con le altre Chiese cristiane; e, infine, nel cerchio più interno, il dialogo all’interno della Chiesa cattolica. Il secondo cerchio è quello degli uomini innanzitutto che adorano il Dio unico e sommo, quale anche noi adoriamo, e non include soltanto gli ebrei e i musulmani, ma anche i fedeli delle grandi religioni afro-asiatici. Pur presentando il cristianesimo come la vera religione, Paolo VI riconosce l’importanza dei valori spirituali e morali delle varie confessioni religiose.
Un grande contributo al dialogo tra le religioni fu dato dal pontificato di Giovanni Paolo II. La Nostra aetate aveva posto alla base di una concezione cristiana del rapporto della Chiesa cattolica con le religioni mondiali una duplice comunanza esistente fra tutte le persone e tutti i popoli: da un lato la comune origine da Dio; dall’altro, il comune destino in Dio, conformemente al disegno divino di salvezza per l’umanità. Il contributo più originale di Giovanni Paolo II si ebbe sia con la lettera enciclica Redemptor hominis (4-3-1979), ove il papa affermò che lo Spirito di verità opera in ogni ferma credenza dei seguaci delle religioni non cristiane (cf. n. 6) e che lo Spirito soffia dove vuole (cf. n. 12), sia nel messaggio agli abitanti dell’Asia (Manila, 21-2-1981) – ove riconobbe l’azione dello Spirito in ogni uomo che prega (principio richiamato nella lettera enciclica Dominum et vivificantem [18-5-1986], cf. n. 53) –, sia nella lettera enciclica Redemptoris missio (7-12-1990). Quest’ultimo documento, prezioso per il dialogo tra le religioni, afferma che il dialogo non vuole sostituire la missione della Chiesa ma è una parte essenziale dell’annuncio cristiano (cf. nn. 10-28). Lo “spirito di Assisi” vedrà la luce in seguito all’iniziativa di Giovanni Paolo II di riunire tutti i leader mondiali delle religioni ad Assisi per la preghiera per la pace.
Il contributo proprio di Benedetto XVI, attualmente, è quello di mettere in evidenza la collaborazione tra le religioni per il rispetto della libertà religiosa e per il riconoscimento dell’ordine divino. Dialogare significa, per Benedetto XVI, salvaguardare anzitutto la propria identità, senza cadere in alcuna forma di relativismo. Delle religioni, papa Benedetto ha evidenziato anche la loro dimensione pubblica e quindi il grande valore che esse possono offrire per il superamento di conflitti, il ripristino della pace e della giustizia tra popoli, nazioni, società e culture.
Facendo sintesi dei molti documenti sul dialogo tra le religioni, possiamo dire che si distinguono tre forme essenziali del dialogo: della vita, delle opere, tra esperti. Sono tre aspetti molto importanti che vanno sempre integrati. Gli incontri accademici non possono apparire credibili senza il confronto concreto con il vissuto di comunità religiose che provano a dialogare assieme.
3. Alcune dinamiche del dialogo
Il confronto con le altre religioni avviene non senza difficoltà. Come bisogna procedere? Anzitutto, permettendo all’altro di rivelarsi, cioè di comunicarsi, secondo le proprie caratteristiche. Quindi, il dialogo nasce dall’ascolto sincero e umile dell’altro. Poi è necessario vincere ogni forma di pregiudizio e di paura. Diversamente, si crea un forte disturbo nella comunicazione. Nel dialogo, inoltre, non bisogna rinunciare alla propria identità. Anzi, la propria fede sarà il punto di partenza.
Dal dialogo sincero con l’altro può nascere sempre qualcosa di buono e di spirituale. Per quanto concerne l’aspetto dogmatico del dialogo con le altre religioni, ogni cristiano deve tutelare questi principi teologici: Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi; Cristo è l’unico mediatore della salvezza; la Chiesa è per sua natura missionaria; lo Spirito Santo agisce in ogni uomo e donna di buona volontà. È bene evitare l’espressione: “religioni non cristiane”. Non si può, infatti, definire l’altro a partire dalla propria identità. Occorre che sia l’altro a definirsi per quello che è. In tal senso, è da evitare l’espressione “religioni non cristiane”: non si può definire l’altro a partire dalla nostra identità!
Nelle discussioni teologiche, sul dialogo tra le religioni, si sono susseguite, dentro e fuori la Chiesa, tre prospettive. La prima, ecclesiocentrica, o anche esclusivista, tendeva a negare alcun valore alle altre religioni. Oramai questa concezione è superata. La seconda, cristocentrica o inclusivista, prova a mettere in risalto l’azione di Cristo nelle altre religioni. È una pista ancora seguita che si sviluppa in concezioni particolari. La terza, teocentrica o pluralista, tende a riconoscere il valore teologico e oggettivo di ogni religione: Dio parla in tanti modi e luoghi. In questa terza concezione, però, non mancano posizioni relativiste e in discordanza con la dottrina cristiana. Cristo, infatti, resta l’unico mediatore tra Dio e l’uomo. Un sano pluralismo religioso, che riconosce l’agire misterioso dello Spirito Santo nelle altre religioni, non può misconoscere il ruolo di Cristo, unico salvatore del mondo.
4. La dimensione spirituale del dialogo
È da salvaguardare anche l’aspetto spirituale del dialogo: ci si incontra tra simili e ci si pone sullo stesso piano, senza alcuna prevaricazione o richiesta di primato. D’altronde, Cristo stesso non ha chiesto nulla in cambio, ma ha donato se stesso. Egli è la Verità, cioè quella forma storica che l’Amore si è data nel tempo. Questa Verità orienta e sostiene il dialogo ma non sottomette a sé nessuno. La Verità non s’impone, bensì si rivela e si testimonia. Noi siamo posseduti da questa Verità e non possiamo non testimoniarla, consapevoli che la nostra stessa testimonianza può svilire la forza della Verità.
È necessario, dunque, assumere un atteggiamento umile, sincero, discreto, quando ci confrontiamo con gli altri. La reciprocità è auspicabile, ben accetta, ma non condizione necessaria per il dialogo in senso cristiano: perché Cristo è morto per tutti, donando se stesso per i nemici, perdonando i suoi stessi carnefici. È anche vero, però, che dalla reciprocità può nascere la comunione o anche un’esperienza concreta di fraternità. La tensione alla comunione o al riconoscimento reciproco, tuttavia, non deve venire meno quando la reciprocità è soffocata o negata. Ecco perché è importante la dimensione spirituale del dialogo: chi ha incontrato Cristo non può non donarsi ai fratelli pienamente. Ricordiamo che la forma più alta del dialogo è il silenzio: si accoglie l’altro rispettandolo nella sua diversità senza pretendere nulla.
La forma perfetta del dialogo è il martirio, il dono di sé per la salvezza dell’altro: Cristo, infatti, sulla croce si è fatto puro silenzio, rendendosi in tutto simile al Padre. Anche san Francesco, il Poverello, quando si recò in Medio Oriente non volle portare con sé nessuna verità o dottrina, ma semplicemente il suo amore per Cristo, quel dono di pace e di riconciliazione che aveva provato per se stesso, per i suoi fratelli, per i tanti peccatori e smarriti di cuore che Dio aveva posto sul suo cammino. San Francesco era un uomo riconciliato con sé, con i fratelli e con Dio; un uomo pacificato che pacificava, facendo proprio lo stato di vita dell’essere creatura innanzi al Creatore.
La santità è via al dialogo: chi ha paura del confronto con l’altro non ha ancora maturato la propria esperienza di fede e di conoscenza viva con il Signore. Fedeltà alla propria tradizione, apertura coraggiosa alla diversità e rigetto di ogni forma di violenza in nome della religione, che significa l’esigenza di coniugare la fede con la ragione, sono le basi di un dialogo autentico nel quale i cristiani sono chiamati a offrire in maniera credibile la loro collaborazione a tutti coloro che si sforzano di fare di questa terra un luogo dove vivere insieme è un bene.
Quale atteggiamento intimo della mente e del cuore, la spiritualità comporta un’esaltazione dell’uomo interiore e produce una intima trasformazione dell’essere. Lo aveva ben capito il Poverello che non provò a cambiare gli altri, bensì se stesso. L’accento sulla natura spirituale dell’uomo è un accento posto sulla sublime dignità di ogni persona umana. La spiritualità insegna che nel cuore di tutte le apparenze esteriori c’è quell’intima essenza che in tanti modi è legata all’infinito. Questa spiritualità dell’interiorità che è tanto predominante nella tradizione religiosa indiana quanto nel cristianesimo, ha il suo complemento e adempimento nella vita esteriore dell’uomo.
Alla luce dello “spirito di Assisi” possiamo affermare, senza sbagliare, che c’è un’autentica esperienza di Dio lì dove avviene la trasformazione interiore dell’uomo. Dunque, religione è, come affermava Gandhi, «quella che cambia la vera natura di ciascuno, quella che lega indissolubilmente alla verità interiore e che sempre purifica. È l’elemento permanente della natura umana, che non richiede uno sforzo troppo grande per trovare una piena espressione e che lascia l’anima completamente insoddisfatta fino a che non ha trovato se stessa, conosciuto il suo Creatore e apprezzato la vera corrispondenza tra il Creatore ed essa stessa» (M. Gandhi, Tutti gli uomini sono fratelli, Ahmadabad 1960, p. 74).